Guai in vista

I recenti articoli dell’Huffpost Italia, del 21 e 22 maggio, mettono i brividi: “Recessione globale, l’allarme di mercati e analisti…”. Ormai non si può più tacere: è partita l’ansia della vendita.
Più che una previsione è una constatazione. I mercati sono in crisi, le Borse in discesa. Le vendite non risparmiano niente e nessuno: né bond e nemmeno metalli, oro, cripto valute. Un terremoto d’assestamento? È da sperare ma, all’orizzonte, si staglia una recessione globale.
Gli indici mondiali parlano chiaro.
In mezzo a questa bufera, non incidentalmente, si trova l’Europa, e la BCE, alle prese con una guerra inattesa e non voluta che, purtroppo, costa parecchio soprattutto perché va ad incidere su di una economia già debilitata dal cursus pandemico e ora oberata dagli alti prezzi dell’energia che divorano i guadagni.

Robin Brooks, capo economista all’Institute of International Finance, la lobby bancaria mondiale, già in Goldman Sachs, già al Fondo monetario internazionale, dichiara che la crescita effettiva mondiale, nel 2022, sarà dello -0,1%.
Due sono i fattori scatenanti, secondo l’opinione dell’economista: la attesa recessione nell’area euro e i lockdown cinesi che rendono asfittico il commercio globale.
A questo si aggiungono i previsti interventi delle Banche Centrali occidentali sui tassi: quello da cura da cavallo della FED e quello più moderato della BCE.
Questi interventi, da severa stretta monetaria, appaiono doverosi e rispondono a prassi consolidata per contrastare una inflazione che dal trotto è passata al galoppo.

Anni di iniezioni di moneta stampata e gratuita, l’alto indebitamento deli Stati (sia negli USA che in Europa), la diminuzione del potere d’acquisto sono gli ovvi effetti di una politica monetaria che ha voluto sostituire la funzione della economia reale con una economia virtuale.
Qualcuno, soprattutto chi si candida al governo, dovrebbe capire che è impossibile sostituire un creativo imprenditore con un tecnico economista.
Oggi, è tardi per recriminare. Quello che è certo è che si sta preparando una assai problematica stagione di austerity. Quello che ci interessa, qui, è il futuro della nostra Italia.

Nella sua intervista alla Stampa, riportata da Huffpost Italia, il commissario europeo Gentiloni sostiene: “Senza Recovery, l’Italia rischia la recessione. I partiti non frenino sulle riforme”.
La Repubblica anticipa le “raccomandazioni” all’Italia (o, meglio, i “programmi di governo”) della Commissione Ue: ridurre i costi dello Stato, ridurre il debito, fare le riforme del fisco (catasto e aliquote) e della concorrenza; e, poi, come ciliegina, l’assunto che il PNRR è “essenziale”.
Finita l’era del QE (iniezione di danaro stampato e gratuito), non c’è altro da dire se non la litania cui siamo abituati: “lacrime e sangue”.
Nell’immaginario collettivo, il PNRR perde il suo ruolo benefico di “rilancio dell’Italia” attuato con spesa buona (investimenti produttivi e reddituali) per assumere, sempre più, i connotati di una stanca iniziativa keynesiana del XXI secolo, a spese dello Stato (cioè del popolo).
Senza il PNRR, si sostiene, ci sarà stagnazione.
Purtroppo, ancora nulla sulla economia reale. Finita questa spinta, è facile prevedere, ci ritroveremo in affanno, peggio di prima; più poveri e senza energia propulsiva, nonostante la sospensione, ancora per tutto il 2023, dei vincoli del patto di stabilità.
Sarebbero queste le soluzioni giuste per l’Italia?
È mai possibile che soggetti esterni, veicolati da nostri connazionali al grido “lo vuole l’Europa!”, debbano mettere così pervasivamente il naso nei nostri affari?

Il debito pubblico, l’annoso problema dell’Italia, aggravato dalla fine forzata del QE, riporta alla ribalta uno spettro dimenticato: lo spread.
Il già citato economista Robin Brooks sostiene che una Italia, che non abbia fatto le riforme, contagia gli altri Paesi europei. Per sostenere questa tesi, tuttavia, egli non declina i fattori del contagio (forse perché inesistenti o affetti da pregiudizio) ma espone una tabella dei Paesi deboli della EU dove indica la crescita dello spread dal settembre 2021 al maggio 2022.
Da essa si rileva che per Italia, Spagna, Grecia, Irlanda, Portogallo (i paesi deboli dell’area euro) lo spread, nel lasso di tempo citato, è mediamente raddoppiato. In particolare, la crescita è stata, nell’ordine, del 89,5% (Italia), 62% (Spagna), 122% (Grecia), 76,3% (Irlanda), 100% (Portogallo).
Come mai? È bastato il semplice annuncio della fine del QE per far traballare queste economie.
Ma, poiché in questa lista appaiono anche i Paesi che hanno fatto le riforme, la tabella mostra, in verità, non un fenomeno di trascinamento verso il basso, dovuto ad una Italia senza riforme, come sostenuto da Brooks, ma il fatto che la politica economica europea, come ad esempio la applicazione generalizzata delle medie degli indici economici a tutta l’area euro, penalizza automaticamente i paesi più deboli.
Il problema, quindi, è la gestione della politica monetaria.
Servirebbe un trattato per affrontare un tema così complesso. Qui ci limitiamo ad un banale esempio.
Data una inflazione nel Nord Europa all’8% (economia forte) e nel Sud Europa al 2% (economa debole), porre, come tasso generalizzato del costo del denaro, la media (pari al 5%), significherebbe alleggerire gli oneri al Nord di un 3% e appesantire gli oneri al Sud dello stesso 3%.
Gli effetti sono evidenti: rilancio delle economie forti, stagnazione nelle economie deboli che pagano i costi di una inflazione esogena, che non è loro.
È il problema delle medie applicate su tutta l’area dell’euro.

Comunque, non è necessario essere economisti per capire che minime variazioni di politica monetaria (anche un annuncio) possono creare gravi scompensi nelle economie deboli.
Ma indovinate un po’ cosa sostiene Robin Brooks in merito alle riforme essenziali da fare, quando scrive: “Monti ha proposto la tassa sugli immobili, che sarebbe stata positiva per l’Italia, ma gli interessi acquisiti in Italia l’hanno impedita e il suo governo è caduto. Credo che la domanda da porsi sia la seguente: perché gli altri in Europa dovrebbero continuare a salvare l’Italia? È giusto?”.
Tesi da rimandare integralmente al mittente.

Quando mai l’Italia è stata in default? Quando mai l’Italia non ha ripagato un suo debito? Non è l’Italia un contributore netto della EU e delle sue iniziative?
Quando i nostri onorevoli delegati la smetteranno di essere esterofili? Quando decideranno di contrastare i pregiudizi?

L’obiettivo è il patrimonio privato italiano che, forse, dà molto fastidio al nostro economista di livello mondiale; Dio solo sa il perché! Ma noi ricordiamo che l’eccellente Mario Monti ha tassato la proprietà, equiparando un valore convenzionale dell’immobile, deciso unilateralmente dallo Stato e non dal mercato, ad un reddito da tassare. Roba da Unione Sovietica non di un Paese liberale! Solo economisti di quella stazza possono pensare una cosa del genere. Ma, forse non sono economisti ma esattori feudali. Con Mario Monti, il valore di mercato degli immobili, in 10 anni, è crollato di oltre il 30%, cui si aggiungono prelievi convenzionali sulla proprietà come l’IMU, Tasse Locali, e quant’altro: effetti devastanti sul mercato immobiliare; un disastro patrimoniale.
Ma poi? Con quali benefici di ritorno? Solo perdite e tanta burocrazia.

Quando gli italiani cominceranno a fare una politica propria? Non lo sappiamo che chiedere aiuto o approvazione a terzi, non ha pagato mai? È necessario recuperare la credibilità di Paese che non può essere delegata a chicchessia.

Quale morale? È ora di svegliarsi e di acquisire la consapevolezza che l’Italia non è peggiore degli altri Paesi; semmai migliore, vista la sua storia.
E questo non significa nazionalismo o sovranismo o altro di simile, declinato negativamente, ma piena consapevolezza della propria identità, libertà, dignità.

Antonio Vox
Presidente “Sistema Paese” – Economia Reale & Società Civile

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Antonio Vox defaulteconomia

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